Duccio Dini, il 29enne fiorentino fermo ad un semaforo con lo scooter che fu travolto e ucciso il 10 giugno 2018 da alcuni rom che si stavano inseguendo in auto per un regolamento di conti “fu vittima incolpevole, vittima sacrificale di una incultura”, “una incultura Rom“, “una incultura zingara” basata “su un senso troppo forte della famiglia e su un atteggiamento di spregio verso la figura femminile“.
Ad affermarlo in aula durante il processo in corso contro sette rom accusati di omicidio volontario è il pubblico ministero Tommaso Coletta.
L’inseguimento ebbe origine da una lite nata per un giuramento: nel processo davanti alla Corte di Assise è stato ricostruito che dopo circa due anni di separazione dalla moglie, il marito pretese dalla moglie una dichiarazione di fedeltà per consentirle di tornare a casa, che filmò col cellulare. Aver registrato il gesto scatenò l’ira del padre e dei fratelli della donna.
All’inseguimento, secondo la ricostruzione della Procura, parteciparono tutti i parenti e “fu chiaramente folle”, “cose pazzesche” fra “auto contro mano e che superano semafori rossi”, oltre all’altissima velocità su strade urbane, rilevata di oltre 100 km/h.
I rom in questione vivono in un campo nelle vicinanze di questi fatti, il Poderaccio, nella zona dell’Isolotto: un insediamento presente in città da moltissimi anni, che il sindaco Dario Nardella aveva promesso di smantellare ma che è ancora lì fra degrado e illegalità.
L’accusa ha chiesto pene fino a 22 anni per i sette imputati. Commenti, frasi e rumori di disapprovazione ci sono stati in aula da parte dei parenti dei rom quando il pm Tommaso Coletta ha chiesto le condanne: una vergogna nella vergogna. Oppure anche i magistrati sarebbero diventati tutti dei razzisti?